Roberto Jerinò
60 anni
di Gioiosa Jonica
Morto, per incuranza e disattenzione
il 23 dicembre 2014
nel
carcere di Arghillà (Reggio Calabria)
“La storia vera per come mi è stata raccontata da chi l’ha vissuta”
“La storia vera per come mi è stata raccontata da chi l’ha vissuta”
Di Michele Caccamo
Fu la sua gamba la prima a
perdere la memoria dei movimenti, poi il braccio, poi la bocca. L’energia
spenta che aveva nel sangue si era riaccesa: con un guizzo, un breve dolore,
con la fiamma del male. Roberto cadde per terra, sfiorando la branda in ferro
con la testa. I compagni di cella allertarono gli agenti penitenziari, urlando
richieste di aiuto. Il corpo di Roberto si era storto e lui giaceva immobile,
con gli occhi sparati verso il soffitto: fissi, come stesse cercando, con la
sua forza, di terminare quell’istante, di non farlo proseguire, di bloccare
così la malattia. Come volesse creare un fermo immagine e tagliare la scena
successiva, quella riguardante la sua morte. Venne portato in ospedale dopo una
quarantina di minuti: giusto in tempo di far arrivare, in carcere, l’ambulanza
del 118. Ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. “La vita è
un’impostura“ pensò durante la degenza, “oltre il supplizio della prigione
adesso anche la maggiore pena dell’infermità; chissà, il giudizio Divino, quale
altra minaccia avrà preparato, quale altra nuova definizione della mia
condanna. Toccherà ai miei organi essenziali la prossima volta? Dio, ne sono
quasi certo, mi ha iscritto tra i penitenti perpetui,m quelli senza
assoluzione. Non trovo vi sia altra giustificazione a questo suo accanimento”
Aveva voglia di buttare tutto per aria: il comodino, le sedie, il suo stesso
letto; tanta era la rabbia. Avrebbe avuto bisogno di controlli e cure costanti,
non di un temporaneo parcheggio in una corsia ospedaliera. Un altro attacco gli
sarebbe stato fatale. Il suo avvocato ritenne logico, naturalmente logico,
presentare una istanza per la concessione dei domiciliari. L'affetto familiare
è l'unica cura non palliativa, l'unica salvificante per il cuore. Roberto si
sarebbe lentamente ripreso, si sarebbe rimesso; avrebbe avuto altrimenti la
sofferenza addolcita dalle carezze leggere dei suoi tre figli. Avrebbe avuto le
cure sante dell'Amore. Pregando il principio di Dio non avrebbe perso la
speranza. Purtroppo fra i togati poco regna l'umana pietà, e la traduzione
sentimentale, degli appelli delle istanze, è bandita. Loro vivono in un altro
mondo, nella scomposta architettura degli “infallibili”. Roberto doveva tornare
in carcere; la sua richiesta era stata rigettata. Era stato nuovamente
arruolato nelle gabbie degli esiliati dalla vita. Ma egli, la sua vita, la
sentiva senza un seguito felice; aveva il corpo storpio, quell'attacco lo aveva
rovinato: la sua testa frullava, come gli si agitasse dentro della schiuma; il
suo linguaggio si comprometteva inevitabilmente sulle consonanti; aveva dovuto
cambiare mano per mangiare, e il braccio se lo portava in avanti tirandolo con
l'altro. Era strano per tutti vederlo così ridotto: era un bell'uomo, ben messo
fisicamente, agile come pochi; prima della malattia. Forse non si era neanche
accorto di quanto fosse cambiato: metà del suo corpo aveva perso ogni impulso,
ogni scatto nelle vene. Nell'ambiente carcerario non servono molti giorni per
far diventare vecchia la malattia, non per sanità, ma per resa. E la carne, e
tutto il resto, si lascia all'abbandono a una timida vergogna; le più intime
sensazioni paiono modificarsi e spegnersi. Roberto diceva che con il riposo
avrebbe presto riattivato il suo fisico; diceva che doveva rimanere a letto per
guarire prima. Era evidente avesse l'intento di nascondere il suo disagio. La
solidarietà comunista, in carcere, è fedelissima e anche molto discreta. I
detenuti reggevano lo spirito di Roberto con atteggiamenti gentili e
disponibili, confortandolo; “è una condizione transitoria” gli ripetevano.
Avevano anche stabilito una dieta per lui: legumi, verdure e poca carne. Tutti
medici e stregoni, pur di salvare Roberto. L'infermiera del carcere era poco
dotata; lo avrebbero aiutato loro, convinti che la partecipazione affettiva
sarebbe bastata. Il 12 dicembre, erano le tre di notte, Roberto sentì
assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo,
lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una
camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire
quella notte. La mattina si segnò in elenco per l'infermeria: gli misurarono la
pressione, nessuna anomalia. Fu così per l'intera giornata: un dolore costante,
ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione,
stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella.
“Impazzisco, fate qualcosa”. Quella vena era diventata un verme, una
sanguisuga. “Portatemi in ospedale, sto male”; niente da fare. Anche il 14 del
mese la pressione era stabile, di nuovo riportato in cella. Non vi rimase
molto. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso,
restò inanime nel letto come un mare paralizzato. Lo portarono in ospedale che
era già in coma, il 15 dicembre alle prime ore del mattino. Aveva chiuso per
sempre la sua conoscenza con l'insensibilità, la disumanità di alcuni. Roberto
non si è più risvegliato, è morto il 23 dicembre. È stato assassinato da una
leggerezza magistrale, togata. Poscritto. Non vorrei continuare ad aggiornare
l’opera con due nuovi nomi, quello dell’ex consigliere regionale Cosimo
Cherubino, detenuto nel carcere di Via San Pietro, dimagrito di quasi 30 chili
e quello di Giuseppe Portaro: un fantasma steso nel suo letto, un accumulo di
ossa che sembrano sbarre. Non mangia da giorni e sviene di continuo. E’ ancora
oggi “ricoverato” presso la casa circondariale di Locri. È rassegnato, non lo
soccorreranno, non prima di vederlo finito. Basterà questo richiamo al
magistrato competente? Spero arrivi la sua decisione per i domiciliari, prima
delle condoglianze.
I detenuti reclusi nel
carcere calabrese di Locri hanno deciso di contribuire, dal basso, alla riforma
della giustizia e del sistema penitenziario. Da una sessione di scrittura
creativa condotta da Michele Caccamo, poeta e scrittore contemporaneo, detenuto
in attesa di giudizio dal Maggio del 2013, è emersa un’approfondita analisi
sulla condizione carceraria che potrebbe essere lo spunto per un’assertiva
quanto efficiente riforma della giustizia. Come dire: «Ascoltate la voce di chi
vive quotidianamente la condizione carceraria sulla propria pelle, ascoltate
chi sa, da dentro evidenziare i punti di intervento oggettivamente necessari
per stabilizzare la riforma carceraria su una dimensione umana e necessaria
alla riabilitazione alla vita, intendendo il carcere come percorso riabilitativo
e non pedissequamente punitivo. In carcere in aggiunta ci sono anche uomini
innocenti in attesa di giudizio, uomini di cultura e di onestà intellettuale
che resistono a questo incubo per amore della vita, della libertà e della
giustizia». Qui di seguito la lettera aperta pervenuta al “Garantista”. di
Michele Caccamo Abbiamo deciso di parlarvi di riforma della giustizia con una
lettera aperta che viene da dentro, da dentro le nostre celle, da dentro le
nostre anime, giusto per dire la nostra e dare il nostro contributo etico sullo
stallo della Riforma della Giustizia. Abbiamo individuato 10 punti che
modificherebbero l’attuale condizione carceraria, ridurrebbero il
sovraffollamento e renderebbero il futuro dei detenuti illuminato dalla
speranza con un presente meno deprimente. Un testo di riforma discusso e
condiviso dai detenuti del carcere di Locri durante uno dei miei laboratori di
scrittura e lettura. Un atto dimostrativo per chiedere attenzione e interesse
sulle aspettative di vita della popolazione carceraria. Nulla di provocatorio
sia ben chiaro, ma proposte autentiche elaborate con senso di civiltà, di
rispetto, di evoluzione; nessun privilegio richiesto ma di più il
riconoscimento umano. Ecco dunque i 10 punti, così riepilogati:
1) sul garante
per i diritti
2) sulla carcerazione
3) sull’uguaglianza della legge
4)
sull’interrogatorio di garanzia
5) sulla custodia cautelare
6) sulla certezza
del reato
7) sulle indagini
8) sull’ergastolo
9) sul recupero dei detenuti e
sull’idoneità delle strutture
10) sul reinserimento
E ADESSO NEL DETTAGLIO:
1)
SUL GARANTE PER I DIRITTI Anacronisticamente e volutamente messo per primo
(ovvero segue in linea temporale ad altri punti ma per noi è tra i più problemi
più sentiti da risolvere). Ogni istituto penitenziario dovrà avere in organico
un garante per i diritti dei detenuti. La durata di ogni nomina è quinquennale.
Il nominativo del garante verrà indicato dal Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati ricadente nella Procura interessata. Non sono dei comandamenti questi,
seppur dieci, piuttosto sono delle indicazioni che spero qualcuno sposi,
migliorandole come è naturale. In cella non abbiamo manuali né codici civili e
qualcosa apparirà straordinaria. Fatene spunto di partenza, ciò che importa è
che alla popolazione carceraria venga data la possibilità di rinascere e di
ricredersi. Non abbiamo volutamente toccato l’argomento “responsabilità civile”
per etica, perché non tocca a noi stabilire né proporre soluzioni che comunque
sono indispensabili per evitare che continui lo sproposito giustizialista. Sui
rapporti con gli affetti più immediati ci affidiamo alla sensibilità del
governo: 6 ore al mese, per custodire e curare i legami familiari sono, non
solo, poche ma umilianti sia per il detenuto che per i parenti.
2) SULLA
CARCERAZIONE È stabilito che sia le condanne che i residui di pena fino a un
massimo di anni 5 andranno scontati attraverso prestazioni lavorative e/o
attività sociali e/o di volontariato. Per le prestazioni lavorative presso
privati è necessa- ria l’assunzione di responsabilità da pare dei titolari o
degli amministratori. La legge ha attuazione automatica e non necessita di
ulteriore approvazione, per la concessione del beneficio, da parte di organi
giudiziari.
3) SULL’UGUAGLIANZA DELLA LEGGE È istituita una commissione per
l’equivalenza applicativa della legge nell’intero territorio nazio- nale. La
commissione ha durata quinquennale ed è composta da magistrati in pensione. Ci
si può rivolgere alla Commissione nel caso una sentenza venga giudicata, dall’imputato,
in disarmonia con altre sentenze, riguardanti lo stesso reato o equivalenti,
emesse dalle Procure Italiane. La commissione dovrà rappresentare l’intero
territorio nazionale: Nord-Centro-Sud (di seguito nominato N.C.S.)
4)
SULL’INTERROGATORIO DI GARANZIA L’interrogatorio di garanzia di un imputato
dovrà svolgersi alla presenza del Gip procedente coadiuvato da altri due
magistrati collegati in video conferenza. La triade dovrà rappresentare
l’intero territorio nazionale N.C.S.
5) SULLA CUSTODIA CAUTELARE È stabilito
che i termini massimi previsti per la custodia cautelare siano i seguenti: 1
mese per pena massima prevista in anni 5; 2 mesi per pena massima prevista in
anni 8; 3 mesi per pena massima prevista in anni 12; 4 mesi per pena massima prevista
in anni 15; 5 mesi per pena massima prevista in anni 20; 6 mesi per pena
massima prevista in anni 25; 7 mesi per pena massima prevista in anni 30. Sono
esclusi dal provvedimento i reati di associazione mafiosa, strage, bande
armate, pedofilia. Per questi ultimi, i termini di custodia cautelare hanno una
durata massima di 3 anni. È detto che nel termine di 3 anni dovrà avvenire lo
svolgimento del processo nelle tre fasi previste. La disattenzione di quanto
disposto produrrà la scadenza termini.
6) SULLA CERTEZZA DEL REATO È chiarito
che il reato si costituisce con l’acquisizione di prove evidenti riscontrate e
inconfutabili.
7) SULLE INDAGINI Il Pubblico Ministero procedente ha l’obbligo
di avviare due distinte indagini, contemporanee e parallele, affidandole a due
differenti corpi della Polizia Giudiziaria, ciò al fine di giungere a una
coincidenza delle prove o alla loro discordanza. Senza una piena e perfetta
consonanza delle prove raccolte non si potrà procedere al- la richiesta di
ordinanza custodiale.
8) SULL’ERGASTOLO Verrà abolita la pena all’ergastolo e
verrà stabilito che tutte le condanne, già emesse in ergastolo, verranno
commutate in pena di anni 30 di carcere.
9) SUL RECUPERO DEI DETENUTI E
SULL’IDONEITÀ STRUTTURALE DELLE CARCERI I detenuti che conseguiranno titoli di
studio durante il periodo di carcerazione usufruiranno dei seguenti sconti di
pena: licenza elementare mesi 3; attestato di formazione professionale mesi 6;
licenza media mesi 12; diploma media superiore mesi 18; laurea triennale mesi
36; laurea master mesi 48. È stabilito che vengano dichiarate inidonee tutte le
strutture che non abbiano al loro interno i luoghi e le caratteristiche
necessarie al reinserimento ed al recupero dei detenuti: aule, laboratori
tecnici, biblioteca, sala di socializzazione, palestra e cineteatro.
10) SUL
REINSERIMENTO È stabilito che potranno essere assegnati i terreni confiscati
e/o di proprietà dello stato e/o di en- ti periferici a quelle cooperative e/o
società composte da ex detenuti. Ad ogni cooperativa e/o società assegnataria
verrà affidato uno o più tutor a seconda delle dimensioni della stessa,
reclutati tra gli organi della Polizia Giudiziaria, per un tempo massimo di
anni 5. Ad ogni cooperativa e/o società assegnataria verrà concesso un finanziamento,
sull’importo calcolato del business plan, pari al 50% a fondo perduto ed il
restante 50% a tasso agevolato da Istituti Bancari convenzionati.
Parlare di Michele
Caccamo per me è parlare di una condivisione di intenti artistici e umani e
quindi di una profonda, bellissima e leale amicizia che è nata tra Poesia e
Teatro. È raccontare del mio lavoro di attrice ne “Il segno clinico di Alda”,
(testo di Michele, musiche dello straordinario Edoardo De Angelis) lo
spettacolo che ci ha visti tutti e tre insieme, protagonisti in scena, sui
bellissimi palcoscenici calabresi, nella primavera del 2013. È scrivere del
caloroso pubblico calabrese, che ci ha accolti con entusiasmo e ci ha regalato
emozioni indimenticabili, o dei plausi della critica che ci ha recensiti con una rassegna stampa di
grande effetto. È ricordare il Salone del Libro di Torino 2013, dove avremmo
dovuto presentare il libro “Dalla sua bocca” di Michele Caccamo e Maria Grazia
Calandrone (dal quale venne estratto l’adattamento teatrale che portammo in
scena) e dove avremmo dovuto incontrare importanti artisti, per avanzare
ipotesi di collaborazione. Parlare di Michele è spiegare come una stagione
artistica, ancora tutta da realizzare e piena di appuntamenti, si sia potuta
interrompere, così bruscamente, alle 5 della mattina, di un lontano 8 maggio
2013, quando Michele venne arrestato a Gioia Tauro. L’indomani avrebbe dovuto
raggiungermi a Milano, per partecipare alla presentazione di un libro, lui come
ospite e relatore, io nel mio ruolo di attrice ed interprete dei brani. Ma
Michele non arrivò mai a Linate. Non capivo nulla, ero stordita dalle notizie,
anestetizzata dall’incomprensione di quello che stava accadendo, a quell’uomo
così serio e per bene, non capivo più cosa stesse succedendo, sembrava che il
mondo iniziasse ad aprirsi all’apocalisse: fermai i pensieri e mi dissi che si trattava di uno scambio
di persona, pensai che entro poche ore al massimo si sarebbe chiarito l’equivoco
e revocato il fermo. Andai da sola a tutti gli appuntamenti programmati con il
dolore appiccicato sugli occhi.
Iniziai a credere che al mio collega, al mio compagno di lavoro, all’autore
che aveva dato vita ad uno spettacolo di rara bellezza, e che aveva reso un
sogno il mio lavoro di attrice, sarebbe stata restituita in tempi brevi la libertà, o che fosse, per lo meno,
trattato come per legge con il dubbio della presunzione di innocenza, diritto
sancito dalla costituzione, e indagato a piede libero. Ma tutto procedeva all’incontrario
di come mi aspettavo. Tutto precipitava vorticosamente in un incubo. Un incubo
che dura, senza soluzione di continuità, da 18 lunghi mesi. Eppure Michele è un
Poeta, è un Uomo per bene, che ha la misura della generosità e dell’onestà, è l’autore
di libri con prefazioni di Alda Merini o Andrea Camilleri, e anche una come
Fernanda Pivano s’è presa la briga di leggere i suoi libri e lo ha incoraggiato
a continuare nel suo lavoro.articoloIo ho rivisto Michele due volte, negli
ultimi 18 mesi, in un’aula di tribunale, chiuso dentro ad una gabbia, come
succede nei film insomma, a quelli
che sono dei criminali. Io non mi sono mai occupata né di giustizia né di casi
giudiziari, perché avevo altro da fare con il mio Teatro, con la Poesia, con la
mia vita. Mai avrei pensato di dover prendere atto di queste atroci condizioni
dei detenuti, incapsulati nel tempo asfittico della custodia cautelare. E poi
diciamolo senza ipocrisie, nell’immaginario collettivo un calabrese in prigione
è colpevole di qualche cosa. Ma quando in prigione ci va un Uomo che conosci
per il suo animo garbato, gentile e poetico, quando ci va il Poeta che
partorisce versi che sono la mappatura intuitiva della sua anima, del suo
vivere spirituale, allora la doccia fredda è garantita. Ti svegli amaramente e
ti rendi conto che qualche cosa non funziona per davvero. Qualcuno deve iniziare a prendere atto
di questo: Michele è un innocente, incensurato ed è in prigione da 18 mesi.
Qualcuno dovrebbe spiegarci allora il senso logico della custodia
cautelare e, nei fatti al di là
dei paroloni, il significato di un equo processo perché, conoscendo Michele, io
credo senza sosta alla sua
innocenza e non solo per affinità d’animo. E ti domandi perché un Uomo
innocente e incensurato non abbia ancora goduto di un giusto processo, di cui
si parla tanto e che secondo legge dovrebbe essere svolto in tempi ragionevoli,
nel suo caso invece diversi
rinvii, che allungano i tempi e sfiancano la sua vita e quelle di chi vive,
accanto a lui, la sua detenzione cautelare, una pena preventiva. E nella sua
stessa condizione, nelle patrie galere, ci sono altri uomini, altri padri di
famiglia, altri drammi, altre pene preventive: altre metafore. Cerchi umana
tregua al dolore e all’impossibilità di darti una risposta per questo assurdo
destino. Rileggo nella sua Poesia, nella sua poetica coinvolgente, fatta di
accostamenti metaforici, una lirica che invita all’introspezione e che avverte
costantemente sulla fuggevolezza della vita e sull’accettazione dei dolori, ai
quali l’uomo è destinato. Con un
linguaggio mai convenzionale, scrive di vita, di morte, d’amore, e ci avverte
sull’importanza del presente che segna il tempo. Una Poesia religiosa, piegata
sotto il dignitoso dolore del legno (o croce) che ogni uomo deve saper portare
per diritto di nascita. Ecco qual è la verità di Michele, autore di raccolte
poetiche di successo, pubblicate anche all’estero, ecco chi è l’Uomo che da 18
mesi è trattenuto in custodia cautelare in un carcere calabrese. Un uomo che
dal carcere, con le sue lettere, dà coraggio e amore ai suoi figli, alle sue
sorelle, alla sua famiglia piena d’amore, ai suoi amici che mai lo hanno
lasciato solo, e a chi da un anno, per non disperdere il suo patrimonio
artistico, ha smesso i costumi di scena e cura il suo ufficio stampa, nella
fiduciosa attesa che la sua ragione abbia giustizia. Ringrazio Damiano
Aliprandi e la redazione tutta del quotidiano Il Garantista per avermi invitata
a scrivere un ritratto di Michele Caccamo e per la costante attenzione alla sua
vicenda umana.
“Il mio amico Michele, da 18 mesi nel buio di una cella”pag 2 “Il Garantista” del 30.09.2014Un grazie particolare a Inka l’incarcerato
Luisella PescatoriUfficio Stampa Caccamo Autore
“Il mio amico Michele, da 18 mesi nel buio di una cella”pag 2 “Il Garantista” del 30.09.2014Un grazie particolare a Inka l’incarcerato
Luisella PescatoriUfficio Stampa Caccamo Autore
Michele Caccamo da un
anno è in carcere. Condannato? No. Si tratta di custodia cautelare. L’accusa:
presunta truffa ai danni dello Stato per un finanziamento considerato
illegittimo. Si professa a gran voce innocente…
Ho sapientemente
dimenticato l’alfabeto, lo dovevo alla mia sanità mentale, dopo che mi hanno di
fatto ritirato dalla vita e dalla prosa.
Adesso ho la testa
incapace di articolare qualsiasi protesta. E sto così, aspetto “con le mie
cento case di pazienza” che la mia custodia cautelare abbia fine. Mantengo
comunque una dignità privata, per così dire un decoro, diciamo che sto cercando
di evitare di diventare un vegetale in questo orto che è il carcere.
Ciò che maggiormente mi
sconvolge è l’imposizione della bruttezza: bisogna entrarci, per capire come,
qui dentro, scada anche l’animo degli uomini e senza che nessuno sappia
inventarsi un innesto, che sia di speranza. Si riabbassa invece l’intelligenza,
giusto per poter contenere ogni probabile reazione sembra ci abbiano impostati
per rimanere nella scarsa conoscenza, nell’ignoranza dovuta agli uomini
cattivi.
Siamo in pieno disastro
con la società esterna, che si accanisce contro ognuno di noi, come
partecipasse a una battuta di caccia, senza ragionevoli dubbi. Siamo in linea
con la disperazione più profonda, bisogna ammetterlo, ridotti ad annusare
l’aria sperando di trovarci qualche particella viva. Gran parte della comunità
carceraria ha in sé la funzione della tenerezza, la necessità della confidenza
della sollevazione, è una tesi abile al reinserimento, venisse accolta e
diffusa.
Io mi propongo, in
alternativa al nulla esistente, mettendomi al servizio di tutti. Nei tanti mesi
di calvario ho sentito centinaia di voci avvicinarsi al mio orecchio: per
riflessioni intime, esigenze spirituali, morali e pratiche. I detenuti
parlerebbero intere ore pur di svuotarsi le pance dalla bile, dalla rabbia;
quante lacrime ho sostenuto, spingendole allo sfogo; quanti scoramenti ho
alleggerito con una carezza, senza vergogna, come è giusto tra adulti sentimentali.
Avessi scritto un “Libro dei pianti” sarebbe stato enciclopedico per nomi,
motivazioni e tragedie. E’ sempre il maledetto orgoglio a far confusione con
l’amore.
Arrivassero i
missionari della carità avrebbero tante ferite da lenire. Io so solo improvvisarmi,
facendo fede sulla mia sensibilità. Ma ascolto tutti scrivendo per loro
istanze, ricorsi, richieste, lettere, sempre più spesso lettere d’Amore.
In questi mesi, per
dimenticare l’incubo che sto vivendo, ho rifugiato la mia creatività
nell’inchiostro blu di una Bic: analizzando le organizzazioni carcerarie, le
composizioni totemiche tra detenuti, il rispetto, l’infezione, la disunità. Le
prove di esilio, di Michele Caccamo e Franz Krauspenhaar (Franz caro, da altra
prospettiva umana e da uomo libero) è il reportage che ne è venuto fuori. E per
non ammattire continuo, oggi con la “consulenza” di due ragazzi egiziani,
Ibrahim e Ahmed, due scafisti che hanno un’altra imprevedibile verità da
raccontare; così sta venendo alla luce La profezia delle triglie, grazie anche
all’intuizione di Luisella Pescatori (coautrice, sì, dall’esterno).
Da qualche settimana ho
proposto e avviato, per i detenuti, un laboratorio di lettura e scrittura.
Esaminiamo e discutiamo un testo letterario; “Il Principe” di Machiavelli ci è
sembrato l’opera più adatta per iniziare il confronto e sollevare in alto il
nostro pensiero, nella perdizione e nello squallore della detenzione. Passeremo
poi a “Dei delitti e delle pene” di Beccaria, ma dobbiamo leggere e discutere
in fretta, ci hanno informato che a fine luglio verranno sospese le attività
con ripresa a settembre: speriamo di non esserci, per quel tempo, qui dentro.
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